Gli ebrei reggiani dal 1669 al 1796

A cura di Gabriele Fabbrici.

 

Istituito dalla duchessa reggente Laura Martinozzi nel 1669, ed effettivamente aperto nel 1671, esso segnò un momento di svolta nella storia dell’ebraismo reggiano. Volendo radunare in un unico luogo gli ebrei dispersos per urbem la Martinozzi ordinò che 162 famiglie, con 885 persone, fossero rinchiuse nel nuovo ‘recinto’, che si estendeva sulle odierne vie Caggiati, dell’Aquila, della Volta, San Rocco e Monzermone. In quell’area, oltre alla Sinagoga grande di via dell’Aquila (1672), vi era anche il cimitero e l’orto di via San Rocco, rimasto in funzione fino al 1808.

Una grave crisi economica colpì più volte il ducato tra Seicento e Settecento, estendendosi rapidamente alle comunità minori e determinando la scomparsa di nuclei minori come Gualtieri, Castelnuovo Sotto, Rubiera, Rolo, Fabbrico, Luzzara e Montecchio. Rimasero attive le comunità di Guastalla, Brescello (seppure in calo), Novellara, Correggio e  Scandiano.

A Reggio Emilia, che grazie alla consistenza e intraprendenza della comunità rimaneva il centro di riferimento per tutti gli ebrei presenti sul territorio del ducato reggiano, la comunità era ben strutturata e dotata di adeguate strutture sociali. Istituzioni caritative ed assistenziali, scuole (dal Settecento furono ammesse anche le femmine), un’accademia rabbinica che esercitava funzioni giudiziarie, un ospedale con medici provenienti da università come Padova e, dal 1780, Modena, erano al servizio degli ebrei del territorio.

Nel contesto di un pesante clima discriminatorio che aveva trovato sanzione nelle norme del Codice Civile Estense del 26 Aprile 1771, quest’ultimo non faceva che regolamentare, attraverso un unico testo legislativo, limitazioni già in uso o in vigore da decenni e secoli in ordine alla residenza degli ebrei, alla convivenza con i cristiani, alla gestione dei portoni del ghetto, all’insegnamento (proibito senza espressa licenza dell’autorità), alla circolazione all’esterno del ‘recinto’ e al segno (un nastro rosso). E ancora, al divieto di possedere beni immobili fuori dal ghetto, all’obbligo di adornare la parte esterna del ghetto in occasione di feste e processioni o funzioni pubbliche per le quali i cristiani avessero fatto altrettanto, all’esclusività della residenza in ghetto (fatta eccezione per quanti potessero dimostrare la legittima proprietà di un edificio all’esterno). Alla fine del Settecento, gli ebrei di Reggio Emilia erano quasi il sette per cento della popolazione residente entro le mura: una presenza, quindi, per nulla trascurabile e assai dinamica nel mondo dei commerci con stamperie, botteghe per la lavorazione della seta e del broccato, oreficerie, botteghe per il commercio di strazzerie e dell’usato, oltre ai tradizionali banchi di pegno. Un micro-cosmo, sul quale si abbatté la ventata rivoluzionaria che, nel 1796, portò all’abbattimento dei portoni del ghetto, sebbene i membri più anziani del consiglio comunitario paventassero, in quel gesto, l’inizio della perdita di identità culturale e religiosa della comunità.