A cura di Alberto Ferraboschi.
Nell’Ottocento le più importanti famiglie della borghesia ebraica fecero edificare, nel cuore della città prestigiosi palazzi, testimonianza della raggiunta integrazione sociale e prosperità economica. Tra le principali dimore si segnala anzitutto Palazzo Carmi, eretto vicino all’area dell’antico ghetto, sull’attuale Corso Cairoli. Il maestoso e vasto palazzo fu costruito, nel 1849, nella zona del convento di S. Spirito dall’ingegnere Luigi Croppi, su disegno di Pietro Marchelli, a spese degli ebrei Giuseppe e Bonaiuto Carmi. Da questa famiglia il palazzo, che oggi è la sede dell’Archivio di Stato, trae ancora la sua denominazione.
Alla famiglia Levi si deve invece la costruzione di eleganti residenze a ridosso della cinta muraria cittadina, nella fase d’espansione urbanistica del secondo Ottocento. Il primo è il villino di Roberto Levi, in via Campo Marzio, costruito, nel 1878, su progetto di due architetti milanesi, Sisso e Combia. La villa sorse in un’area dove preesisteva l’antico convento dei “Frati Umiliati”, poi “Monache Bianche” (il cui ordine era stato fondato dalla beata Giovanna Scopelli) e della loro chiesa di S. Maria del Popolo. Tipico esempio di residenza signorile urbana, la villa aveva 75 stanze e un giardino retrostante. Il secondo importante intervento edilizio fu la villa di Ulderico Levi in via Fontanelli, sorta dalla demolizione di Palazzo Fontanelli e altre case fatiscenti. Costruita anch’essa nel 1878, su progetto dell’architetto Pio Casoli, l’edificio si caratterizzava per una struttura monumentale, con ampie terrazze, balaustre ed elementi decorativi che richiamerebbero l’origine israelita del committente. Inserita di un ampio parco, la villa al suo interno era impreziosita da stucchi e da un soffitto dipinto da Gaetano Chierici. Occorre poi ricordare l’abitazione di Arnoldo Levi in un palazzo di Corso Garibaldi. Dal 1894, lo stesso Arnoldo entrò in possesso anche dell’elegante villa di Coviolo, divenuta in seguito sede universitaria, e dove sul finire dell’Ottocento risiedette la figlia Margherita con i figli.
Al nome di un’altra potente famiglia ebraica si collega un imponente edificio prospiciente via Emilia Santo Stefano dalla facciata austera: Palazzo Franchetti. Risalente agli anni Ottanta dell’Ottocento, sorse per iniziativa del barone Raimondo Franchetti a seguito del suo trasferimento a Reggio Emilia, e divenne la residenza privata più estesa di tutta la città. Alla costruzione del fabbricato lavorarono circa 200 operai, muratori ed artigiani provenienti anche dal Veneto. Il raffinato palazzo era circondato da un vasto parco, esteso tra la via Emilia e l’attuale via Franchetti, comprensivo anche di una cavallerizza; nel corso del tempo venne ampliato fino alle mura che nel frattempo venivano abbattute. Nel parco sitrovava anche un originale gazebo-belvedere in ferro e ghisa trasportato in seguito nella tenuta del Cavazzone, sulle prime colline reggiane, dove Raimondo Franchetti sul finire del secolo aveva fatto costruire alcuni nuovi edifici rurali tra cui il caratteristico chalet dei cacciatori.
Bibliografia essenziale
W. Baricchi, L’insediamento ebraico e la città, in “Ricerche Storiche”, n. 73, dicembre 1993, pp. 125-138;
A. Brighi – A. Marchesini – G. Adani, Dimore storiche di Reggio Emilia, Vittoria Maselli Editore, 2012;
F. Cocconcelli, Ebrei e trasformazione urbanistica nella Reggio ottocentesca, in “Bollettino Storico Reggiano”, n. 140, dicembre 2009, pp. 65- 80;
U. Nobili, L’Ottocento in Villa. Residenze di campagna nel reggiano, Cavriago, Bertani & C., 2009.